(Cettina Vivirito) C'è più vita in dieci chilometri lenti e a piedi che in una rotta transoceanica che ti affoga nella tua solitudine progettante, un'ingordigia che non sa digerire - scrive Franco Cassano nel suo “Andare lenti”, rivolto probabilmente a una parte del mondo, in aumento, che sta riscoprendo la voglia di fermarsi, andare lentamente, farsi permeare dalle cose e non travolgere. Vivere in modalità “slow”: più lenti ma più sereni di contro a quelli che non a torto sono stati definiti “scoraggiatori militanti”: sono quelli che dicono che la vita è altrove. La vita è ovunque, semplicemente, ed è forse la riscoperta di questa banalità la vera rivoluzione.
Dunque, la prima cosa da fare è parteggiare per le colline, per i cani, per i baci, parteggiare per le albe, per chi cammina, riunirsi per leggere un libro, per sentire un suonatore di fisarmonica, per zappare un orto, per raccogliere l’uva di una vigna. Ecco le assemblee del nuovo secolo, ci dice un altro profeta della lentezza, Franco Arminio. Ma già Milan Kundera aveva notato che “C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio (…) la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria. E potrei citarne altri, come Carl Honoré, che nel suo “Elogio della lentezza” sottolinea che questo desiderio non è neppure un tentativo di riportare il mondo a una sorta di utopia preindustriale, piuttosto ricerca di equilibrio, essere svelti quando ha senso essere svelti ed essere lenti quando è necessaria la lentezza. Cercare di vivere seguendo quello che i musicisti chiamano il “tempo giusto”, ossia la velocità più adeguata. Che dire poi di Jim Jarmusch, il regista/autore che più di ogni altro ha riletto in chiave critica la mitologia on the road e il rapporto fra l’uomo e il paesaggio americano?
Chi fa politica ha da sempre il compito di cambiare la storia o orientarla con responsabilità; ognuno di noi può farlo, per sé e per la comunità in cui vive decidendo liberamente se occuparsene in prima persona o incaricarne una potenza rappresentativa, come i partiti, per esempio: sono però circa trent'anni che la politica non orienta più niente, e l'unica cosa che sa fare bene è rubare. Viviamo in un periodo in cui le speranze sono solo individuali, associazionistiche, solo private perché il partito - quale che fosse, - ha perso il suo significato di riferimento sociale, culturale e politico da quando ha perso la capacità di chiamarsi tale: sono finiti il PCI il PLI il PSI - forse il PD ha mantenuto il nome (e solo quello)-, ovviamente tutti molto discutibili rispetto alle ispirazioni iniziali ma avevano una caratteristica: rappresentavano l'essere; uno era radicale, era comunista, era liberale, era socialista e quella identità corrispondeva a dei valori di consapevolezza, di cultura. Si è perso tutto. Sono nate le margherite le leghe le querce le forze, si è perso l'essere a favore dello stare: io sto di qua o sto di là. Creando delle cose inverosimili in cui persone di diversissimo orientamento stanno insieme “contro” qualcun altro e in questo il bipolarismo berlusconiano è stata la nostra vera tragedia: i ladri che vediamo oggi sono esattamente uguali a quelli di prima ma diversi nella misura in cui rubano per se stessi e non più per una causa, per un'ideale, per un partito. La politica è diventata una delle cose più terribili del nostro tempo, e quindi che qualcuno possa tentare di fare “storia” da solo, pur essendo una dimensione romantica, disperata e terribile risulta oggi senz'altro più affidabile individualmente di quanto può esserlo un partito: approdiamo con fiducia ai nuovi profeti come Franco Arminio, o Carlo Petrini, il presidente di slow food: due intellettuali ultimi e unici che hanno indicato un indirizzo politico ma non si occupano di “politica” nel senso più tristemente noto.
La filosofia di Slow Food che Petrini rappresenta parte dalla riscoperta del piacere attraverso la cultura materiale. Il piacere di cui parla è quello alimentare, sensibile, condiviso e responsabile. Per avvicinarsi a questa conquista, che deve essere di tutti, bisogna secondo Petrini innanzi tutto riflettere sulla lentezza, recuperare ritmi esistenziali compatibili con una qualità della vita che deve essere totale. Non è un’eresia dire che il piacere alimentare - spesso tabù, represso, riservato soltanto a élite facoltose – va democraticamente perseguito per tutti nel mondo. Non è eresia lavorare perché anche i più poveri ne possano godere. Dire “piacere alimentare” significa ricercare le produzioni lente, ricche di tradizione e in armonia con gli ecosistemi; significa difendere i saperi lenti, che scompaiono insieme alle culture del cibo; significa lavorare per la sostenibilità delle produzioni alimentari e quindi per la salute della Terra e la felicità delle persone. Un atto di riconciliazione urgente, tanto essenziale nella sostanza pratica quanto profondamente religioso che racconta uno stato d'animo diffuso. Filosofia sorretta da un fare, da un'azione, che rompe l'indifferenza e ridimensiona la rassegnazione imperante.
Il livello dello scontro sul modo di concepire le nostre vite si è molto aggravato in questi ultimi anni ma rispetto a questa realtà la politica continua a rimanere assente, mentre un gastronomo semplice quando viene a conoscenza che in Puglia, ad esempio, schiavizzano gli uomini per la raccolta dei pomodori, non può più essere un'entità neutra che si occupa solo di ricette o di tecnica culinaria: piuttosto si trasforma in intelligenza affettiva, qualcosa che la politica ha smarrito. Lentezza non è sinonimo di ottusità e non necessariamente va contro la modernità. Né va inteso come un valore assoluto: semmai è una medicina omeopatica che tutti dovremmo prendere solo se ci fermassimo un attimo a riflettere. Bello sarebbe che dallo "slow food" passassimo alla "slow life", ma sarebbe talmente radicale un cambiamento del genere che se fosse applicato modificherebbe nel profondo il mondo in cui viviamo, sarebbe una sorta di austera anarchia; d'altronde le nostre comunità hanno una creatività e una capacità di interpretare il territorio che nessuna organizzazione potrebbe mai dare, provviste come sono di un sentimento di comunanza ideale, di sinceri combattenti per la democrazia, per i diritti civili. Il futuro dei luoghi sta probabilmente nell’intreccio di azioni personali e civili. Per evitare l’infiammazione della residenza e le chiusure localistiche occorre abitarli (i luoghi) con intimità e distanza. E questo vale per i cittadini e più ancora per gli amministratori. Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia, parola di Arminio.
Fare festa a un luogo, raccontarlo, attraversarlo, cantarci dentro passando dalla coscienza di classe alla coscienza del luogo, tentando di resistere alla miseria spirituale dilagante.
Che nome si può dare a questa religione che arriva fuori tempo? La paesologia è quasi una nuova scienza che s'insinua tra le speranze del nuovo secolo, è un piccolo tentativo che ha a che fare con la religione nel senso che vuole legare delle emozioni, delle vaghe suggestioni intorno al finire di un mondo e all’inizio di un altro. Senza la fine dalla modernità non ci sarebbe paesologia, ma non si tratta di una disciplina rurale e neppure paesana: si tratta di inventare uno spazio impensato, capace di intercettare i flussi buoni e tenere lontani quelli cattivi. In fondo è come una guerra partigiana: resistere al nemico comune che si chiama denaro. Nel momento in cui il denaro diventa teologia, allora bisogna scendere sul terreno del sacro e creare altre teologie.
La paesologia peraltro vuole mettere in evidenza i luoghi sgraziati, quelli che sarebbero luoghi luminosi anche se non ci fosse nessun essere umano dentro. Vuole aver cura della bellezza che si è salvata dal diluvio della modernità. Il cambiamento si rifonda qui, nei luoghi dove si ripianta il grano buono, si potano gli ulivi con amore, si dà foraggio sano alle mucche. Tutte tracce di una politica che parte dalla natura. La festa paesologica produce felicità in luoghi che di norma sono affranti, luoghi in cui si cresce con l’idea della fuga. L'intuizione dei profeti della lentezza è che invece questo è il tempo di restare dove si nasce, è il tempo di credere ai paesaggi che ci hanno formato perché in fondo siamo l’aria che abbiamo respirato, il cibo che abbiamo mangiato. E se in certi luoghi non si potrà piantare il grano si potranno seminare campi, si potrà seminare poesia: trasformare i paesaggi sconsolati, di margine e disabitati in paesaggi solenni. All'opposto di una bellezza “firmata” come quella di Venezia, di Firenze, di Roma e in generale delle grandi capitali d'Europa, esiste una bellezza non firmata, quella dei nostri uliveti coltivati dai nostri nonni con grande fatica. Negli anni '50, quando la sinistra marxista era in auge, non è stato mai realizzato un documentario in cui si parlasse della bellezza di questi posti, erano considerati luoghi da rottamare insieme alla civiltà contadina ed è con questa logica che è arrivata l'ILVA a Taranto; dobbiamo liberarci dai bulloni e dalle macchine prima ancora che le macchine si liberino di noi, facendo altro. Per quanto questi profeti siano disperatamente solitari è da loro che possiamo aspettarci l'unica speranza possibile emancipandoci da quell'idea di progresso che fu fondamentale nella mitologia del novecento: nel manifesto futurista Dio viene sostituito dall'automobile con una netta sostituzione dei relativi valori. "Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità" recitava il Manifesto del futurismo nel 1909; le parole si rovesciarono, il paesaggio divenne territorio, le belle arti divennero beni culturali il godimento della bellezza si trasformò in fruizione, con grande velocità tutto prese una direzione prevedibile verso le città, verso l'industrializzazione in una condizione di cecità generale. Forse non tutti sanno che l'Italia ha 25 milioni di edifici costruiti in alzato: di questi 25 milioni 12 milioni sono stati costruiti dal tempo di Segesta fino al 1959 e 13 milioni dal '60 ad oggi: cioè abbiamo costruito in sessant'anni una quantità di architetture pari a quelle che furono costruite in 2700 anni! Abbiamo costruito orrore, periferie degradate, grattacieli ovunque distruggendo e cancellando. Quando abbiamo finito di distruggere le città, abbiamo cominciato a distruggere il paesaggio, e un esempio evidente ne sono le pale eoliche. Ancora un altro profeta, Cesare Brandi, raccontava della più bella strada d'Italia, quella che da Palermo va a Mazara passando per Mozia, meravigliosa per la grande varietà del paesaggio; se oggi vedesse le 850 pale eoliche -tutte ferme- che stanno piantate lì probabilmente morirebbe d'infarto.
Ecco che una fondante mitologia del nostro tempo dev'essere quella della lentezza, senza alcuna promessa che non sia quella di preservare ed evitare con forza che ciò che abbiamo venga ancora e ulteriormente distrutto.
Se “conservazione” è una parola positivamente adottata dai direttori di musei e in generale nell'ambito delle belle arti, politicamente è al contrario considerata parola negativa, sinonimo di restaurazione, di regressione: i fatti ci hanno dimostrato e continuano a dimostrarci che non è sempre vero; a tal proposito ho trovato una straordinaria assonanza tra il pensiero dei profeti di cui sopra e un pensiero espresso nel 1957 da un uomo generalmente considerato un vero conservatore come Leo Longanesi, che scrisse:
"La miseria è ancora l'unica forza vitale del paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto il frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custoditi soltanto dalla miseria; dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitale ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale perché il povero è di antiche tradizioni e vive di una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi mentre il ricco è improvvisato, di fresca data; nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che lo umilia, la sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall'imbroglio, da facili traffici - sempre o quasi imitando qualcosa che è nato fuori di qui- perciò quando l'Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga noi ci ritroveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l'anima".
E' corretto precisare ancora una volta che i profeti di cui ci siamo occupati sono persone notoriamente “di sinistra” giusto per confermare che “sinistra” non indica più nemmeno una direzione, non vuol dire più niente, forse soltanto che è da lì che si proviene, affettivamente e intellettualmente.
Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia (…). Andare lenti è ruminare, imitare lo sguardo infinito dei buoi, l'attesa paziente dei cani, sapersi riempire la giornata con un tramonto, pane e olio.
E' il tornare alle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, è quello che potrà offrire riparo ai profughi del pensiero veloce, è “misura” impensabile senza l'andare a piedi, senza fermarsi a guardare gli escrementi degli altri uomini in fuga su macchine veloci. Nessuna saggezza può venire dalla rimozione dei rifiuti. E' da questi, dal loro accumulo, dalla merda industriale del mondo che bisogna ripartire se si vuole pensare al futuro.
(MC) Ecco un articolo, quello di Cettina Vivirito, che di primo acchitto potrebbe sembrare non pertinente con la mission di questo magazine, ma che invece lo è profondamente, soprattutto perchè una fascia oggi sempre più cospicui di ultrarunner e di ultracamminatori si immergono sempre di più in un contatto profondo e radicale con il territorio e con il paesaggio, conquistando lo statuto di "psicoatleti", secondo la definizione coniata da Enrico Brizzi, e di "paesologi". In entrambi i casi si tratta, il più delle volte, di uno status "in pectore" di cui non si ha piena consapevolezza. Forse, quest'articolo può contribuire ad aiutare costoro ad acquistare una maggiore consapevolezza di ciò e a dare ulteriore valore alla loro passione per la corsa e il cammino profondi che, indubbiamente, possono diventare gesti "politici" nel senso più profondo e autentico del termine.
Festival La Luna e i Calanchi 2017 diretto da Franco Arminio
La festa della Paesologia si tiene ad Aliano in provincia di Matera. Dal 22 al 25 agosto 2017. Ci sarà sempre più spazio all'immaginazione, all'impensato.
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