Pubblichiamo qui - per completezza - la recensione al secondo tomo (indivisibile) dell'opera a due mani scritta da Pino Clemente e da Gino Pantaleone, dal titolo Ars Sana in Mente Insana (Medinova (2017).
Il primo tomo, già recensito in questo magazine da maurizio trattava il tema della "droga nell'arte" ed era ricco anche di riferimenti che possono sollecitare direttamente l'interesse dei runner (e in particolare di quelli "ultra"). Questo secondo tomo, recensito da Cettina Vivirito, sviluppa invece in tema della "follia nell'arte" e pur presentando meno agganci diretti alla pratica dello sport di endurance, chiude tuttavia il cerchio di quanto raccontato nel primo tomo e rappresenta sicuramente un arricchimento culturale per chi pratica lo sport. In fondo, la pratica sportiva non è solo movimento o fisicità: ad essa si richiede sempre un approccio compl
esso, in cui l'aspetto mentale é dominante. E appunto per questo - anche per evitare un'eccessiva specializzazione ed un restringimento cognitivo è un bene tenere la mente aperta e permeabile a stimoli di tipo diverso. E, quindi, proprio per questo motivo abbiamo deciso di dare ampio spazio anche al volume "La Follia nell'Arte" (arricchito dalla prefazione di Aldo Gerbino e da un contributo di Alessia Misiti), certi del fatto che si possa rendere un buon servizio a chi corre anche fornendogli spunti di riflessioni in campi diversi.
E poi si potrebbe anche dire che chi corre sulle lunghissime distanze e affronta imprese epiche ed incredibile possiede sicuramente dentro di sé una "corda pazza" ed con essa ha una certa dimestichezza. E dunque, anche tema trattato da Gino Pantaleone può essere pertinente.
Ecco di seguito la recensione di Cettina Vivirito.
“I pazzi osano dove gli angeli temono di andare”, ovvero, della follia nell'arte
Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit
(Nessun grande ingegno fu mai senza una mistura di follia)
(L. A. Seneca, De tranquillitate animi)
Impazzire è la cosa più intelligente che avessi mai fatto
(Alberto Fragomeni)
(Cettina Vivirito) "Ho approfondito e non poco le vicende di queste vite “al limite” e la mia prima sensazione, e lo dico con il cuore tra le mani, è quella di aver provato tanta tenerezza che, essendo quella d'istinto, la reputo vera, autentica".
Questa emotiva riflessione contiene in sé tutto il senso, profondamente umano, del saggio breve e intenso di Gino Pantaleone, La follia nell'arte, autore, insieme a Pino Clemente di un opera in due tomi: “Ars sana in mente insana” dove i due autori analizzano e ripercorrono, approfondendo l'argomento attraverso esperienze personali, due temi speculari sull'arte, quello della droga e quello della follia, stati di alterazione dai confini indeterminati, spesso incomprensibili ma stupefacenti, nei risultati artistici. Il “racconto” di Gino Pantaleone, semplice e commosso parte da un anfratto recondito del suo cuore, un'indelebile ricordo d'infanzia:
"I miei nonni abitavano nelle case popolari di via Giuseppe Pitrè a Palermo alle cui spalle c'erano degli slarghi dove noi ragazzini spesso ci organizzavamo per giocare a pallone. (…) Questi campetti di calcio improvvisati erano da un lato delimitati da un muro altissimo che divideva la zona nostra, quella dei ragazzini, da quello che una volta era il manicomio della città, la ex Real Casa dei Matti. La paura più grande, ricordo, per noi, era quella che nella foga, un calcio più forte degli altri potesse far andare la palla al di là del muro, (…) Il vero problema era che fine avrebbe fatto quella palla avendoci i grandi inculcato nella nostra mente che dall'altra parte c'erano i pazzi, sorta di mostri fuori di testa pronti a qualsiasi cosa anche a uccidere, in particolar modo i bambini".
Ecco come fin dall'inizio la lettura di questa “storia della follia”, che attraversa come un brivido lungo la schiena tutta la storia dell'arte e con essa s'interseca inestricabilmente, viaggio che Pantaleone intraprende probabilmente per meglio comprendere ed esorcizzare quella sua antica paura, riporta alla mente altre letture di altri siciliani che si sono confrontati con la stessa paura e che il genio (follia?) letterario condusse a scrivere capolavori rimasti impressi nella mente di molti, come il monologo del pazzo contenuto nell'Enrico IV di Pirandello:
"Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo, e quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri ed ero beato! Perché, guai se non vi tenete più forte ciò che vi par vero oggi da ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l'opposto di ciò che vi pareva vero ieri.. Guai! se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile (…) che se siete accanto a un altro e gli guardate gli occhi, come io guardavo un giorno certi occhi, potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra non sarete mai voi, col vostro mondo dentro come lo vedete e lo toccate, ma uno ignoto a voi come quell'altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca".
Erano gli anni sessanta e l'idea di matto era molto simile a quella che Gino Pantaleone fece propria da bambino: le storie che venivano narrate a tal proposito erano davvero paurose e leggendarie. La Real Casa dei Matti, l'ospizio per alienati fondato dal barone Pisani nel 1824 che tanta paura destava nei palermitani dell'epoca, colpì di grande stupore anche un uomo di lettere come Alexandre Dumas che viveva a Parigi, dove operavano i teorici di quel “trattamento morale” della pazzia a cui l'esperimento del barone Pisani è ascrivibile. La diade genio/follia è diventata uno stereotipo, sanzionato anche dal punto di vista drammaturgico, nel 1836, quando lo stesso Dumas scrisse l'opera “Kean ou désordre et génie”. Ciò che colpiva Dumas, come molto dopo e molti altri dopo di lui, del manicomio palermitano, era quel tanto di eccessivo, di monstre, di orrido siciliano che ha accompagnato in tutta Europa la fama di questo luogo. Quest'eccessività, quest'estremismo è la chiave per collocare nella storia della medicina la “magnifica istituzione”, un miscuglio di antiche credenze e intuizioni precorritrici, di aristocratico paternalismo settecentesco e istanze sociali, di empiria antiscientifica e valori d'umanità, di eccentricità estetizzanti e risultati terapeutici.
L'essere una delle cose di Sicilia la ravvolse poi di leggenda, di “folie palagonienne” (come fu detta da un viaggiatore giornalista l'operosa mania che talvolta rapiva i siciliani e di cui sarebbero indizi la Villa dei Mostri del Palagonia, il monastero di cera del principe di Butera, il cimitero dei Cappuccini e l'illustre ospizio del barone Pisani). Ancora oggi l'inaccettabile paradosso sani fuori e matti all'interno di quei cancelli è plasticamente rappresentato da due enormi orologi posti nella facciata della già Real Casa dei Matti, significativamente dedicati uno ai "saggi" ed uno, solare, ai "folli": come se il tempo scorresse a due marce diverse a seconda della condizione mentale degli individui. Dopo la legge Basaglia, quei luoghi di tristezza e dolore hanno subito rifacimenti e restauri ed il manicomio è stato trasformato oltre che in un interessante spazio museale di archeologia industriale (fondato dall'ingegnere Domenico Muzio), in sede di uffici ed ambulatori di un'azienda sanitaria, per curare davvero la gente.
Nella storia dell'arte, anche prima dei casi clamorosi di Van Gogh e di Ligabue, autodidatti geniali e assolutamente straordinari, molti sono gli artisti la cui mente è attraversata dal turbamento, che si esprimono in una lingua visionaria e allucinata. Ognuno di loro ha una storia, una dimensione che non si misura con la realtà, ma con il sogno.
Controcanto ne è il Museo della Follia di Catania, repertorio degli artisti pazzi di Sicilia, più che altro dei disperati, degli abbandonati, dove le collezioni che sono inglobate nell'allestimento rappresentano in una luce nuova, in modo razionale e ordinato l'esistenza di un'umanità travolta dagli obblighi e dalle regole che hanno determinato alcune forme di “follia” o meglio, di “disobbedienza”: questi artisti/individui si rifiutarono di fare ciò che il mondo impose loro- dicotomia pirandelliana tra vita e forma; si chiusero probabilmente in una forma che procurò un senso alla propria vita, vita che rifiutò carriere e divise: il matto non ha un abito, non vuole fare carriera, non vuole essere iscritto a un'anagrafe, non si accomoda ad accettare la dipendenza.
Così come Goya il quale nel riscoprire le grandi immagini della follia, evoca una nuova follia, quella dell’uomo gettato nella sua notte: le sue forme nascono dal nulla, sono senza sfondo perché nulla può definire la loro origine e il loro termine, nuova visione ripresa da Hieronymus Bosch nel “Sant’Antonio” dove è evidente il richiamo contraddittorio della natura presente in Goya. È la loro una follia dietro la maschera che morde i volti senza occhi né bocche, sguardi che vengono dal nulla e si fissano nel nulla, fine e inizio per l’uomo, e per il mondo. Questa follia che unisce e separa il tempo, che trasmette le parole della follia classica diede loro diritto e cittadinanza nella cultura occidentale, come fecero notare Nietzsche e Artaud.
Anche la calma e il paziente linguaggio di Sade raccolgono le ultime parole della follia e danno loro un senso per l’avvenire. Nel castello in cui si rinchiude l’eroe di Sade, nelle foreste e nei conventi, l’uomo ritrova una verità dimenticata e cioè quella che nessun desiderio può essere contro natura se è vero che è stato messo dalla stessa natura nell’uomo e dunque, la follia del desiderio, le passioni più sragionevoli diventano al contrario saggezza e ragione perché appartengono all’ordine stesso della natura: niente di ciò che la follia sembra inventare non è già natura manifesta. Così la follia di Torquato Tasso, la malinconia di Swift, il delirio di Rousseau appartengono sia alla loro vita che alle loro opere: parla la verità. Verità contenuta nella follia del grido dionisiaco di Nietzsche, in quella di Artaud. La follia così diventa non lo spazio d’indecisione in cui si rischiava di far trasparire la verità, ma la verità che sovrasta la storia. Con la meditazione sulla follia, è il mondo a diventare colpevole nei riguardi dell’opera. Caso emblematico e violentemente dichiarato è proprio quello di Artaud che studiò con sofferenza il caso di Van Gogh il quale a Auvers-sur-Oise produsse in due soli mesi, 32 disegni e 70 quadri, prima di suicidarsi con una revolverata all’età di 37 anni. Secondo Artaud, il pittore "non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la conoscenza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò".
Se la patologia mentale, comunque si manifesti, è il risultato di una mancanza di adattamento dell’individuo all’ambiente, il risultato artistico diventa scudo protettivo, tentativo estremo di colmare la distanza da un Dio lontano ed indifferente, da una verità apparentemente irraggiungibile e insieme riconoscimento di tale irraggiungibilità.
L’idea secondo cui la verità sarebbe universale, eterna, che vi sia verità ovunque e sempre, e che dappertutto attorno a noi la verità incomba, ci attenda, sia presente in silenzio, passiva e addormentata aspettando il momento in cui getteremo lo sguardo su di essa e infine la risveglieremo, l’idea che la verità e l’universale coincidano, come ha mirabilmente sostenuto un grande storico come Foucalt, ha avuto corso lungo l’intera storia di quello che potremmo chiamare il nostro imperialismo culturale.
Se consideriamo la trama, la fibra della nostra società, della nostra civiltà, delle nostre istituzioni, ci accorgiamo che in fondo abbiamo sempre, anche in uno stadio avanzato, delle tecniche, dei rituali, delle istituzioni che hanno la funzione di determinare, di isolare momenti specifici o luoghi differenziati a partire dai quali la verità potrebbe infine rifulgere: come se, alla fin fine, la verità non fosse propria di ogni luogo, né di ogni tempo, ma dovessero esserci luoghi in cui la verità esplode e appare, momenti in cui la verità può essere colta, momenti in cui viene alla luce.
Esiste infatti tutta una geografia culturale della verità, ed esiste nelle nostre società una geografia delle sedi profetiche. I filosofi greci si chiedevano perché, appunto, si ritenesse che la verità dovesse parlare a Delfi; la cella del monaco, l’isolamento monastico, costituivano a loro volta una modalità di predisporre un determinato luogo geografico in cui la verità avrebbe potuto prodursi. Ancora oggi noi abbiamo, nelle chiese e nelle università, dei luoghi che chiamiamo “cattedre”, da cui si suppone che la verità parli.
Sarà la nozione di normalità, di comportamento normale, a costituire il correlato teorico della pratica dell’internamento. La follia sarà definita all’inizio del xix secolo non come giudizio perturbato ma come disturbo nel modo d’agire, nel modo di volere, nel modo di avere passioni, di provare sentimenti, nel modo di prendere decisioni, e così via: la follia cesserà di iscriversi lungo il grande asse verità-errore-coscienza, per iscriversi lungo un asse completamente diverso: quello passione-volontà-libertà. “Ci sono sicuramente degli alienati il cui delirio è appena visibile”, dice Esquirol, “ma non c’è alcun alienato le cui passioni, le cui affezioni morali non siano disordinate, pervertite o annientate. L’attenuazione del delirio non è dunque una guarigione certa se non quando gli alienati ritornano alle loro destinazioni normali”. E allora, in queste condizioni, se è vero che la follia è essenzialmente lo sconvolgimento dell’asse o dei due poli: passione-azione/libertà-volontà, quale sarà il processo di guarigione? Il ritorno alla verità? Niente affatto. Piuttosto un altro tipo di ritorno, e ancora scrive Esquirol: “Il ritorno alle destinazioni normali nei loro giusti limiti”. Il desiderio di rivedere gli amici, di rivedere i propri figli, le lacrime della sensibilità, il bisogno di aprire il proprio cuore, di ritrovarsi in mezzo alla propria famiglia, di riprendere le proprie abitudini., ecco, secondo Esquirol, cosa caratterizza davvero la guarigione.
Ciò che potrà permettere questo ritorno alla norma, al modo normale di agire e di sentire sarà proprio l’ospedale, inteso non come luogo di osservazione, ma piuttosto come luogo di affrontamento tra, da una parte, la passione e la volontà perturbate del malato e, dall’altra, la passione e la volontà ortodossa del medico e del personale ospedaliero. Come sosteneva Basaglia, autore della legge che pose fine alle istituzioni manicomiali: "La caratteristica fondamentale di queste istituzioni: fabbrica, ospedale, scuola, manicomio, è una separazione netta tra coloro che hanno il potere e coloro che non ce l’hanno".
Tutte le grandi riforme del pensiero psichiatrico sorto attorno al problema del rapporto di potere, tutte le grandi crisi, tutti i grandi dibattiti sono altrettanti tentativi per spostare, per smascherare, per disarmare questo rapporto di potere. Cosa che implica un lavoro politico: un lavoro di lotta e di azione politica che cerca di sciogliere tutti i rapporti di potere che tramano, che intessono la nostra esistenza.
Il caso più emblematico a sostegno di questa tesi è forse quello della poetessa Alda Merini, per la sua immensa lucidità poetica: Ho conosciuto Gerico,/ho avuto anch'io la mia Palestina,/ le mura del manicomio/ erano le mura di Gerico /e una pozza di acqua infettata/ci ha battezzati tutti./ Lì dentro eravamo ebrei/ e i Farisei erano in alto/e c'era anche il Messia/confuso dentro la folla: /un pazzo che urlava al Cielo/tutto il suo amore in Dio./ Noi tutti, branco di asceti/eravamo come gli uccelli/e ogni tanto una rete/oscura ci imprigionava (…)/Fummo lavati e sepolti,/odoravamo di incenso./ E, dopo, quando amavamo,/ci facevano gli elettrochoc/perché, dicevano, un pazzo/non può amare nessuno. (...).
Il mistero continua, scrive Gino Pantaleone in chiusura: "Ancora oggi non abbiamo certezze scientifiche se genio può significare essere necessariamente folli o se essere folli può significare essere necessariamente geniali. Restano solo queste vite tormentate di tanti intellettuali e artisti che furono devastate da patologie crudeli, che furono ingabbiati dentro bianche e sporche camicie di forza, che subirono passivi terapie cruente quali l'elettroshock e abitarono e, a volte, terminarono anche le loro esistenze in miserabili, tetre e putride celle di oscuri ghetti chiamati manicomi".
Brevi notizie sull'Autore. Gino Pantaleone é poeta e scrittore palermitano. Ha pubblicato tre raccolte di poesie: “Urla di dentro” - 1996, “Io così, se volete” - 1997 e “Il vento occidentale” – 2007. Per essere stato premiato in diversi concorsi letterari, l’Accademia Costantiniana gli conferisce la nomina di Socio Accademico “in riconoscimento dei servigi resi alla cultura”. Alcune delle sue poesie tradotte sono diventate testi di musica raccolte in un cd dal titolo “Simple”. Nel 2013 gli è stato conferito il Premio Internazionale della Cultura “Salvator Gotta” per la saggistica biografica per il libro “Non dobbiamo aver paura” (2012), per “aver squarciato il silenzio sull’opera di Michele Pantaleone”. Nel 2014, l’I.S.S.P.E (l’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici) e il G.R.E. (Gruppo di Ricerca Ecologica) gli hanno assegnato il “Premio Gaia 2014”, per la divulgazione della Cultura alla Legalità per il libro “Il Gigante Controvento”. Nel 2016 e viene premiato al Premio “Piersanti Mattarella”. Nel novembre 2016 pubblica il saggio “Servi disobbedienti”.
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