Tra i tantissimi esordienti (oltre 800 runner) sulla distanza dei 100 km alla 40^ edizione del Passatore "La 100 più bella del Mondo", c'era anche il friuliano Andrea Furlanetto. E' arrivato alla fine di questa sua prima esperienza, tagliando felice il traguardo di Piazza del Popolo a Faenza e consapevole di aver compiuto un'importante esperienza.
Quello che segue è il suo racconto profondo ed intimo, più centrato sull'esperienza compiuta che sul suo aspetto meramente performativo, anche se non sono d'accordp con lui quando dice di sé "Non sono e non sarò mai un atleta...".
In verità, chi affronta la 100 km del passatore, contando solo sulle proprie forze (e su ciò che fornisce l'organizzazione) compie un'impresa non da poco e memorabile che, specie la prima volta, rimarrà per sempre impressa nel cuore e nella mente: un'impresa non da atleta, ma forse equirabile - per alcuni aspetti -a quella di un eroe della mitologia, che si sottopone ad una prova iniziatica o a un rito di passaggio, dopo il quale il proprio rapporto con il mondo non sarà più il medesimo, così come il pellegrinaggio nei luoghi santi era lo strumento principe di un percorso di trasformazione personale (e forse anche un'esperienza di morte-rinascita).
Molte sono le vie che conducono alla 100 km del Passatore e, in questi molteplici percorsi, ciò che conta è il viaggio non la meta (come giustamente afferma Andrea, citando Claudio Magrisi): e, dunque, proprio per questo il viaggio che conduce ogni singolo runner a tagliare il traguardo sito al centro della manfreda Piazza del Popolo di Faenza, comincia spesso molto, ma molto prima, sia in termini di chilometri da percorrere sia in termini di tempi e di attesa.
E l'esperienza del viaggio va bevuta sino in fondo, va assaporata, centellinandola - non certamente ingurgitandola come fanno coloro che si polarizzano inmodo ossessivo soltanto sul traguardo finale e che, in nome di quell'obiettivo, si consentono di edulcorare l'esperienza e di renderla più comoda con molte e fantasiose forma di assistenza personalizzata.
Per la cronaca, Andrea Furlanetto, è stato finisher della 40^ edizione della 100 km del passatore, in 12h40'07, ma è significativo - e in piena armonia con ciò che scrive - che egli del crono finale non faccia menzione in nessun punto del suo racconto.
(Andrea Furlanetto) Ho atteso un mese esatto per scrivere alcuni pensieri sulla mia prima partecipazione alla 100 km del Passatore. E’ stata un’esperienza molto intima e profonda, tanto che scriverne sembra quasi un controsenso. Mi sono risolto a farlo perché me lo ha chiesto Maurizio, una persona che stimo profondamente per la sua intelligenza e per l’ironia con cui attutisce l’impatto significativo che la sua cultura ha sull’interlocutore.
Il "mio" Passatore ha avuto inizio nel 1976, poco dopo il terremoto del Friuli. Abitavo a Trieste ed in quel periodo i miei genitori mi concedevano qualche deroga alla regola di andare a letto presto. Passavano un po’ più di tempo con me dopo cena, probabilmente per rassicurarmi. Una sera mio padre ed io ci ritrovammo per caso a guardare un resoconto del Passatore. Non saprei dire se si trattasse dell’edizione di quell’anno o di quella dell’anno precedente. Ricordo che mi impressionò molto il coraggio di queste persone che valicavano nottetempo l’Appennino contando solo sulle proprie forze per compiere un viaggio di 100 chilometri.
Mio padre morì nel 2003, dopo due anni difficili, alle prese con una malattia che condizionava pesantemente i suoi ritmi di vita e che si dimostrò incompatibile con il suo desiderio di libertà e autonomia. Riflettendo sui suoi ultimi mesi, spesso penso che abbia scientemente accelerato la sua morte.
A distanza di nove anni, otto dei quali passati a consumare scarpe da corsa, ho pensato che fosse venuto il tempo di pagare quel debito che avevo contratto a con me stesso tanto tempo fa.
Durante i mesi trascorsi dalla notte di dicembre in cui mi iscrissi al Passatore, mi è tornato in mente spesso il concetto che Claudio Magris esprime così chiaramente in Danubio: il viaggio conta più della meta. Il mio viaggio verso Faenza è stato emozionante e la fatica è stata solo fisica, mai mentale. La prima maratona dell’anno l’ho conclusa stringendo forte la mano di una persona cui sono molto legato, poi sono passato per altre quattro stazioni, ed in ognuna di esse la fermata ha permesso di caricare insegnamenti, emozioni, incontri, soddisfazioni (più emotive che sportive, beninteso). Insomma, un piccolo stralcio di vita, spesso parallelo a quella principale, perché mia moglie ha una viscerale avversione per la corsa e molte delle mie gare restano segrete.
Questo itinerario, a volte tortuoso ma coperto con serenità, mi ha condotto sabato 26 maggio a Firenze, pieno di rispetto per la distanza, tuttavia pronto ai necessari sforzi per arrivare in fondo. L’aspirazione di arricchirmi di un’esperienza e l’assoluta mancanza di un obiettivo cronometrico hanno avuto come logica conseguenza la decisione di predisporre un unico cambio sulla Colla di Casaglia (maglia leggera a maniche lunghe, lampada frontale e fascette catarifrangenti) e di basarmi solo sui rifornimenti ufficiali. Ho dovuto rifiutare quasi scortesemente l’aiuto che il carissimo Giuseppe mi ha offerto, ma so che ha compreso perfettamente quali fossero le ragioni e che sa quanto mi siano piaciute quelle chiacchiere al ristoro di San Cassiano, l’unico nel quale ci siamo ritrovati.
D’altra parte, per chi come me percorre 30 e più chilometri bevendo l’acqua delle fontanelle pubbliche dei paesini attorno a casa, i ristori del Passatore sono sontuosi e la loro frequenza è più che adeguata. Oltre alla ricchezza ed alla varietà di cibi e bevande, quello che colpisce è il sorriso dei volontari, la prontezza con la quale reagiscono a qualsiasi richiesta ed il piacere con cui offrono ciò di cui dispongono. Ivi compreso il the bollente che mi ha ustionato la bocca a Fognano, ma la ragazzina che lo porgeva era perentoria e suadente allo stesso tempo: inutile provare a resisterle.
Queste persone mi hanno quasi drogato con la loro passione: credo sia grazie a loro se, alla vista del cartello del 60° chilometro l’unica cosa che mi è venuta in mente è stata “Manca solo una maratona, e ne ho già fatte tante”, salvo dopo richiamarmi all’ordine, intimarmi maggiore prudenza e stupirmi di uno stato mentale talmente positivo da essere – probabilmente – irripetibile.
Se c’è qualcosa che non funziona, in questa corsa meravigliosa, ricca di panorami e di storie straordinarie da ascoltare e raccontare, è la cultura di molti partecipanti. Vorrei che si rendessero conto che l’auto in appoggio non serve, che non sanno quanto ci si sente forti a fare questa corsa senza orologio, che perdono un pezzo importante di esperienza, che l’abbraccio dei figli, dei compagni di vita e degli amici provoca brividi fortissimi anche e soprattutto dopo aver raggiunto il traguardo. Tra qualche anno spero di poter tornare a percorrere la Faentina con le mie gambe, spero di rivedere quel cartello sull’ultima rotonda che recita ‘FIRENZE 100’ e pensare: “Sì, lo so”, spero di trovare più compagni di viaggio e meno automobili. Soprattutto, spero di trovare Simone in piazza, già cambiato dopo la doccia, che mi aspetta con una birra fresca, anzi tiepida, perché sarà arrivato da cinque ore.
Non sono e non sarò mai un atleta, però avevo un debito con me stesso e l’ho pagato spostando gradualmente il mio limite.
Ora so per certo che la mente immagina le barriere, poi le eleva e infine le abbatte, mentre il corpo non può fare altro che adeguarsi.