Samia, l'atleta somala che ha portato la bandiera nazionale del suo paese ai Giochi olimpici di Pechine, minacciata dagli integralisti islamici perchè, essendo donna, praticava lo sport, ha cercato di raggiungere l'Italia, per vie illegali e, tentando la traversata, è morta in mare. E' così naufragato dolorosamente il suo sogno di correre in Italia e di continuare a praticare l'atletica, cosa che in patria le veniva negato. Morta, perseguendo il suo sogno.
Una storia triste quella di Samia, ma esemplare per illustrare quanto possa essere forte il bisogno di libertà e quello di inseguire la propria passione.
Quello che segue è l'articolo di commossa commemorazione comparso su Il Giornale.it.
(Fonte: ilGiornale.it) Sono trentadue. Sono secondi. Sono la commovente metafora di una vita che non c’è più. Lei si chiamava, si chiama, si chiamerà per sempre Samia, ragazza simbolo, minuta e ostinata, giovane somala dai lineamenti aggraziati regalo di quel popolo bello quanto sfortunato e crudele con se stesso.
Popolo in lotta, popolo senza pace. Samia è il simbolo triste e coraggioso di chi la vita, a costo di morire, la vuole cambiare. È agosto, è il 2008, stadio olimpico, nido d’uccello, Giochi di Pechino, giochi muscolosi fatti per raccontare una potenza che per una manciata di secondi si trasformano però in Giochi di dolcezza infinita.
Succede nelle batterie dei 200 metri donne. Corsia 7, c’è Isabel Le Roux, sudafricana, altra Africa rispetto a quella di Samia. Isabel non sa nulla di lei. Corsia 6, c’è Veronica Campbell Brown, fuoriclasse, giamaicana, è tesa, sprizza muscoli.
Non sa nulla di Samia, di quella ragazza di 17 anni alla corsia 2, pronta a scattare con fuseaux elasticizzati neri e t- shirt bianca e bandana e il fisico di chi corre, ma non si allena in centri specializzati e non segue la dieta degli atleti rispettando le proporzioni ottimali di glicidi, protidi, grassi, vitamine, sali minerali, carboidrati e vattelapesca.
Veronica Campbell e le altre non sanno di lei e non la vedranno neanche perché allo sparo correranno via e sarà gara solo loro, 23 secondi e rotti, gara a cinque, metafora di chi si è preparato e affronta la vita e magari perde ma ha tutto quel che serve per farcela. Dietro, molto indietro, 32 secondi il suo tempo, Samia corre e vive la propria di metafora, quella di chi anche se dà l’anima no, proprio no, non potrà mai raggiungere gli altri.
Perché gli altri sono troppo avanti, gli altri appartengano a un mondo che non sarà mai a portata. «Ho rappresentato la Somalia, ho tenuto in mano la bandiera, ho sfilato con i grandi atleti e sono orgogliosa di quanto fatto » dirà fiera, senza neppure approfittare dei media del mondo per raccontare del padre ucciso negli scontri a Mogadiscio, della povertà, dei cinque fratelli.
Purtroppo senza neppure sapere come verrà accolta in patria. Perché nessuno ha visto la sua gara, non è stata trasmessa, nessuno sa e anche lei, ben presto, è il 2009, capirà che è molto meglio non sapere nulla, persino negare di essere un’atleta.
A convincerla le minacce ricevute da al Shabaab, il partito della gioventù, il gruppo insurrezionale somalo, fondamentalista islamico, che vieta di vedere e praticare gli sport.
Alla prima occasione Samia fugge, scappa in Etiopia, prova persino a riprendere gli allenamenti, stavolta i 1500, obiettivo Londra, niente da fare.
Già, Londra.
Dopo i Giochi appena conclusi è un gran parlare di eroi sportivi. Fra questi Mo Farah, oro dei 5000 e 10000,oro per l’Inghilterra dove si è rifugiato a 8 anni scappando dalla Somalia.
Già, Londra. Dopo i Giochi Abdi Bile, campione del mondo nei 1500 a Roma '87, icona dello sport somalo, durante un incontro ha gelato il mondo dello sport: «Sapete che fine ha fatto Samia? Ve lo dico io: è morta. Su una carretta del mare... cercando di raggiungere l’Italia dalla Libia».
Pechino, t-shirt bianca e quella corsa: e le cinque atlete che fuggono via. Irraggiungibili. Metafora di una vita.