Daniele Baranzini non è soltanto uno sportivo di valore (con un passato molto articolato di esperienze e pratiche sportive multiformi) e un ultrarunner capace di esplorare il suo limite, ma anche è anche per studi fatti ed interessi uno psicologo che allo stato attuale si occupa di psicologia delle organizzazioni.
Daniele Baranzini nelle sua pratiche sportive non può fare a meno di importare lo sguardo dello psicologo, dando così di ciò che fa una rappresentazione tridimensionale ed approfondita.
Cosa succede veramente in una 24 ore?
Cosa comporta il parteciparvi?
Cosa sperimentano quelli che vi assistono?
Sono questi alcuni dei quesiti a cui Daniele Baranzini tenta di rispondere nello scritto che segue, tenendo conto che una gara come una 24 ore podistica su pista (ancor più che su strada) ha delle ricadute sia sul piano psicologico individuale, sia su quello sociale.
Individuale, per via della peculiare commistione di motivazione individuale, passione e requisiti personali che forgiano la reislienza di ciascuno dei partecipanti.
Sociale, in quanto nel corso di una 24 ore su pista si viene a creare, pur nel rispetto dei principi della competizione una micro-comunità, cosatiutita da atleti, giudici di gara, rilevatori e organizzatori, assistenti e familiari presenti come spettatori, oltre naturalmente al pubblico (il più delle volte numericamente esiguo e risicato).
Una micro-comunità che è percorsa da saldi vincoli (pur invisibili) di solidarietà, di empatia e di calore umano. La 24 ore è dunque un evento sportivo peculiare in cui concorrono le singole individualità (non solo degli atleti impegnati nella fatica), ma in cui - in quell'arco di tempo dato - si costruisce con il contributo e con le energie di tutti un edificio comune.
Ed è come se dallo sforzo collettivo nascesse un pensiero (il "pensiero 24", secondo l'evocativa definizione di Baranzini), a sua volta fondato su di un serbatoio di energie, di emozioni e di passioni in qualche modo condivise che rappresentano qualcosa di più della semplice somma aritmetica dei contributi individuali...
E questo saebbe un universo tutto da esplorare con degli strumenti di indagine specifici.
Il contributo lanciato da Daniele Baranzini è la prima pietra di un lavoro di approfondimento in questa direzione.
(Daniele Baranzini) Correre una 24 ore in un circuito chiuso ha molti significati.
E per chiunque lo abbia già fatto sembra quasi difficile farne a meno.
È una competizione che ti coinvolge e ti abbraccia. Rispetto a una classica 100 km in linea correre per 24 ore in un circuito genera letteralmente un “piccolo borgo sociale” che staziona fermo tra i ristori e la pista, quasi fuori dal tempo!
Sei come in una stazione spaziale orbitando attorno alla terra dove tutti fanno cose normali e tu vedi la terra girare.
Il tempo, in realtà, si ferma dentro queste gare e sono convinto che qualcuno all’albeggiare (generalmente verso le sei ore finali) spera che la magia non finisca “presto”.
Ancora più paradossale è che in una 24 ore si può avere la sensazione che “manca il tempo” per completare e fare alcune cose che ci si era prefissati. Gli atleti imparano a vedersi e rivedersi continuamente, i sorrisi si trasformano in fatiche, le parole lasciano spazio a molti silenzi e il battere delle scarpe sul tartan regnano sovrani. La regia di tutto questo è lo stesso gruppo di atleti che, per motivi anche molto diversi, vengono per condividere la stessa esperienza umana e per gareggiare allo stesso tempo.
Sì, in una 24 ore bisogna essere umani e pronti a capire gli altri che ti girano attorno. Ci si alterna nei passaggi e la parola “ripetizione” assume un nuovo significato. Ad esempio, prima della partenza gli atleti fanno quasi gruppo… si ha la sensazione che qualcosa di enorme debba essere fatto, ma non semplicemente dal singolo atleta.
C’è quasi la sensazione che la “cosa”, la 24 ore, debba essere letteralmente “costruita da tutti”.
E, di fatto, una 24 ore è un’azione che emerge dal gruppo e mai risulta essere la semplice somma degli sforzi del singoli atleti. Ognuno diventa un elemento essenziale nel far crescere questo “gioco collettivo”.
In termini di momenti, e rispetto ad una giornata normale, la giornata della 24 ore viene scandita semplicemente dai volti, dalle gambe e dai gesti del corpo…solo dall’uomo o dalla donna che ti trovi a fianco, dietro o davanti. La ripetizione delle cose è l’olio che permette all’ingranaggio di funzionare.
Entrare in una 24 ore (in Italia almeno) è come entrare un po’ in un club. Il senso di appartenenza e coesione lo percepisci subito. Le prime quattro o cinque ore di corsa servono a “formarsi”. Servono solo a prepararti per il “dopo”, per il lungo periodo, che a partire dalle sei o sette ore di gara incomincia ad emergere naturalmente tra tutti (sia tra gli agonisti sia tra i puri amatori DOC).
Il collante di questo gruppo di corridori è la fatica, ma anche il riposo perché in una 24 ore si corre e ci si ferma per prendere un respiro comunque.
Anche gli organizzatori sono parte integrante del gioco. Loro spesso scandiscono certi ritmi e determinano lo stile della manifestazione. Ad esempio, nel cuore della notte sono loro ad abbassare il volume della musica quasi a segnare un momento di tranquillità e di “nina-nanna” per tutti. Alcuni atleti sfruttano questo momento per riposarsi anche nelle tende spogliatoio. Si ha la percezione che tutti rallentino un poco, anche i più veloci. I giudici stessi sono voci che ripetono e scandiscono continuamente gli stessi numeri per centinaia di volte. E’ tutto un enorme ritmo. Nessuno viene escluso.
Dopo le quindici ore, se corri ancora - o se cammini ancora (a volte anche solo se sei sveglio) -, stai veramente entrando nel cuore della 24 ore.
Stai letteralmente resistendo in un gruppo. Infatti, in una 24 ore si crea un modo nuovo di percepire le sensazioni. Le sensazioni individuali di fatica e resistenza sono gestite non da te ma dalle interazioni che hai con gli altri. I singoli atleti quasi per magia “donano energia l’un l’altro” ad ogni passaggio ritmico del circuito. Ognuno diventa punto preciso di riferimento non solo per sé ma soprattutto per gli altri. È come se il proprio e personale "resistere" alla fatica e al dolore fosse “gestito dal gruppo”, come se la gioia e la fatica fossero delegate all’insieme degli atleti, e non più al singolo. In una 24 ore si crea una resilienza di gruppo. Si dona se stessi per ricevere supporto dalle posizioni di tuti gli altri. Paradossalmente si diventa come un singolo corpo e poi un singolo pensiero, il pensiero 24.
Insomma chi non ha mai provato una 24 ore e vuole sentirsi parte di qualcosa di più grande della gara a cui partecipa… dovrebbe pensare di correre una 24 almeno una volta nella sua vita.
Nota introduttiva e foto di Maurizio Crispi
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