Elena Cifali (ASD EtnaTrail) ha partecipato il 3 novembre 2013 alla Millet Etna Sky Marathon 2013. E, come sempre, ha scritto un suo pezzo. Ma non aspettatevi di trovare qui una descrizione del percorso di gara o di quanto è avvenuto nel suo corso. No, in questo scritto, non c'è niente di tutto questo... E' qualche cosa di diverso e Elena Cifali non cessa mai di sorprenderci.
C'è un amarcord all'inizio dell'articolo e poi seguono delle considerazioni sulla filosofia e sulle motivazioni del correre di Elena che, tuttavia, escono dai personalismi ed assumono un carattere generale, universale e pienamente condivisibile, per concludersi con un inno alla corsa, alla sua bellezza e alla sua capacità di "attivare" pensieri e fare sbocciare emozioni, sempre nuove, sempre diverse. E non ultimo, alla sua capacità di attivare solidarietà, legame, di "re-ligare": e qui, agevolmente, arriviamo alla dimensione della corsa come "religione della mente". Per non parlare poi, dello strordinario concetto della scomposizione-ricomposizione dei pezzi (di pensieri e di emozioni) attraverso l'esperienza del correre e dell'arrivare alla fine al traguardo - quando ogni traguardo non è una fine, ma semplicemente l'inizio di una nuova corsa.
Detto per inciso, Elena Cifali - assieme Angelo Muré e Giuseppe Militello, i due compagni di squadra con i quali ha corso di conserva dall'inizio alla fine - ha concluso la sua fatica in 4h56'.
(Elena Cifali) Non me ne frega niente se sono sporca, sudata e puzzo come un cammello nel deserto.
Non mi importa se la domenica mattina sono costretta a svegliarmi prima dell’alba.
Non mi importa se le unghie dei miei piedi sono martoriate e colore blu, senza neppure lo smalto.
Non mi importa se sono così stanca da trascinarmi per arrivare alla macchina e recuperare lo zaino col mio cambio di biancheria.
Non mi interessa se le mie amiche in questo preciso istante sono con le gambe accavallate sul divano a bere il loro caffè dopo il lauto pranzo domenicale: io ho preferito pezzi di banana, mandorle e nocciole.
E pazienza se dopo l’ennesimo bicchiere di Coca Cola i miei compagni hanno dovuto sopportare un sono rumore corporeo.
Niente trucco sul mio viso, solo il rossore delle mie guance accaldate dal sole e dalla fatica.
“Come fai a sopportare così tanta fatica, a trovare tutta l’energia che ti serve?”, questo mi chiedono in tanti.
Beh! Se devo dirla tutta non lo so neppure io.
Fin da bambina non mi sono mai risparmiata: avevo 8 anni quando mi prendevo cura dei miei fratelli più piccoli.
Mamma e papà, impiegati postali, uscivano la mattina presto e rientravano tardi al pomeriggio.
Ricordo il freddo pungente delle mattine d’inverno a Como.
Spingere il passeggino lungo quella interminabile salita che da casa portava fin nel centro del quartiere era ieri più faticoso che correre una maratona oggi.
Otto anni sono troppo pochi per caricarsi di responsabilità.
Il senso del sacrificio, la fatica, la determinazione, la responsabilità mi hanno sempre fatto compagnia durante la vita.
Forse correre mi risulta semplice perché adesso sono libera di sceglierli, il mio sacrificio, la mia fatica, la mia determinazione e la mia responsabilità.
Eppure non ritengo di avere avuto una vita difficile, anzi, aiutata da una buona dose di buon senso, tanta fortuna ed una famiglia alle spalle che mi proteggeva ho vissuto nel benessere anche se con semplicità.
Però, da che mi sono sposata, ho sempre detto a mio marito che dalla vita mi aspettavo una possibilità, un qualcosa che facesse uscire allo scoperto la vera Elena.
Ho dovuto aspettare 38 anni affinché ciò si realizzasse.
Ho capito che amavo correre da grande, quando ero già moglie e mamma, quando i capelli bianchi non si contavano più sulla mia testa.
Sono passata dal divano alla corsa in un tempo così breve che quasi stento a crederci.
Temo, di tanto in tanto, di avere sognato tutto, temo che tutto quello che ho fatto fin ora sia solo il frutto di una notte ricca di fantasia.
E chi lo avrebbe mai detto? Io che a scuola mi facevo esonerare dalle lezioni di educazione fisica, ritenendole assolutamente inutili, io che non tolleravo l’odore di sudore, io che per andare nei boschi doveva esserci una scampagnata, io che per attraversare la strada prendevo l’automobile!
Ma le cose cambiano e la vita ci riserva sempre infinite sorprese.
La mia sorpresa si chiama Corsa.
Ma la corsa non inizia e finisce con la semplice fatica, col mero sforzo fisico e mentale.
Oggi per me la corsa significa famiglia!
Famiglia è quel gruppo di splendide persone che compongono la mia squadra, alla quale con onore fa parte anche mio marito.
Ah! Mi riempio la bocca quando dico “la mia squadra”!
Uomini e donne che come me condividono una passione, a sentirci parlare sembriamo pazzi, maniaci fissati con un solo argomento.
La mia squadra, il mio Presidente, i miei compagni: uno per tutti, tutti per uno!
Potrei nominarli tutti, uno ad uno senza dimenticare nessuno!
Ma oggi mi perdonerete se dedicherò qualche riga in più a due di loro.
Giuseppe Militello ed Angelo Murè. E’ con loro che ho corso l’Ecomaratona dell’Etna [Millet Etna Sky Marathon]. Quarantaduemila metri, quattro ore e cinquatasei minuti gomito a gomito con loro, uno a destra ed uno a sinistra.
Lentamente ho preso a disegnare la mia strada, la mia storia.
Ho lasciato che tutto scorresse silenzioso ed immutabile sotto di me, nonostante le chiacchiere quasi ininterrotte di Giuseppe.
E’ proprio vero, la corsa unisce e lo fa per sempre, con lealtà, con disinteresse.
Ogni gara è un’avventura, si sa quando si parte e non si può mai sapere quando si arriva.
Correndo insieme si vivono emozioni, sentimenti, angosce, frustrazioni, paure e gioie, crisi di riso e altre di pianto.
Si vivono momenti indimenticabili durante i quali ci si incita a vicenda, durante i quali c’è sempre qualcuno più lucido degli altri che dirige il gruppo, che ti prende la mano per non farti restare indietro, che ti supporta e motiva, che ti ricorda chi sei e quanto vali.
Ogni volta che corro una gara mi lego indissolubilmente a qualcuno, e quel qualcuno resterà impresso nella mia memoria e nella mia vita per sempre. Ieri, i momenti di sconforto non sono mancati, quando la salita si faceva più dura, quando il terreno si impennava e i reni dolevano.
Quando le ginocchia strillavano a causa di quella discesa così impervia.
Raccomandavo ai miei compagni di restare concentrati, di non perdere di vista il terreno, di non lasciarsi ingannare e distrarre dalla stanchezza che come una sirena invogliava a cambiare rotta, verso la disfatta, verso l’abbandono.
Noi tre non ci siamo mai lasciati, nemmeno quando a turno uno stava meglio degli altri o quando uno stava peggio e desiderava solo fermarsi.
In quel momento noi dell’Etnatrail eravamo una squadra, una famiglia, e in una famiglia nessuno resta indietro.
Noi tre, tra lacrime e sudore, partiti da molto lontano abbiamo tagliato il traguardo tra urla di dolore e di gioia.
Quando si corre a questi alti livelli, non tecnici ma carichi di sopportazione, bisogna avere il coraggio di lasciare aperto il cuore, affinché possa accogliere tutto ciò che dall’esterno voglia entrare e che tutto ciò che dall’interno voglia uscire.
Non sempre rimane tutto positivo, ma - nella corsa e con la corsa - sicuramente tutto trova una giusta collocazione, una giusta dimensione. Ogni pezzo della nostra vita si sistema da sé e va a posarsi dov’è giusto che sia finchè non arriva la sorpresa: il gonfiabile dell’arrivo ed allora tutti i pezzi che quieti quieti si erano seduti iniziano a ballare e cantare, rendendoci magnificamente imperfetti. Si mischiano e provocano quel caos interiore che noi chiamiamo vittoria. E sapete perché tutti questi minuscoli pezzi si mischiano ancora una volta tra loro? Semplicemente per ridarci la gioia di rimetterli al loro posto durante la prossima corsa.
Non stupitevi del fatto che io corra, stupitevi del fatto che ancora non correte insieme a me.
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