Il podista siciliano Alfonso Sciarratta ha portato i colori della sua Società podistica Athlon Ribera nel deserto, in occasione della 100 km del Sahara che si è svolta tra il 26 e il 27 ottobre 2012: una speciale occasione, in cui questa gara solitamente a tappe, si è svolta in'unica soluzione, no-stop.
Grande fatica la sua, ma anche grande soddisfazione.
L'impatto con la prima gara desertica é stato per Alfonso molto duro: tanto da fargli pensare, appena tagliato il traguardo, intriso di sudore, con le incrostazioni del sale del sudore evaporato addosso e le scarpe piene di sabbia: "Mai più!".
Per accorgersi dopo, a mente più lucida, di essere stato contagiato dal fascino dei deserti e dal Mal d'Africa.
E, adesso, non vede l'ora di tornarci di nuovo.
Di lui ha scritto, il giornale on line SicaniaNews.it.
Ecco di seguito, il suo racconto. (Alfonso Sciarratta) Ho pagato pegno per una mezza tirata la domenica precedente (il 21 ottobre 2012, a Sant'Agata di Militello, Messina) per cercare di fare classifica e già dopo il 20° km non riuscivo a reggere il ritmo dei miei compagni.
Ma facciamo un passo indietro e partiamo dall'inizio...
Tutto pianificato (almeno così speri quando affronti un'avventura del genere), ma all'arrivo a Djerba di tutto il gruppo non arriva (responsabile un'addetta al chek-in) solo il mio bagaglio.
Meno male che l'indispensabile per la gara è con me: sdolo un po' di ansia, perché nella tarda serata me lo fanno recapitare.
Cena in albergo, dormitina e l'indomani partenza per Chenini da dove parte la gara.
Controllo delle attrezzature e certificati e poi si parte...
Lo scenario è da favola: un posto che a chiamarlo "paesino" è già un'iperbole: sono solo quattro case arroccate su una roccia.
Si percepisce che è il giorno più importante della loro festa principale (Festa del sacrificio o Id al-adha, credo si chiami) e dappertutto c'è gente che scanna montoni, pozze di sangue, tanfo di animali macellati, mosche, donne che sciacquano interiora e gettano l'acqua sulla "strada", che poi è solo una polverosa mulattiera. Si attraversa in salita questo villaggetto e poi si affronta discesa che ci porta ad affrontare una mulattiera in salita (simile alle nostre) al cui culmine ci si affaccia in uno spettacolo naturale fantastico un grand canyon (credo che vi abbiano fatto dei film western), e da li a poco a poco ci si addentra nel deserto sulla parte più caratterizzata da sassi.
Nel frattempo, si allungano le ombre della sera.
Il morale ancora è alto, si sta in gruppo e si continua a scherzare, ma col far della notte le cose cambiano: il fondo che ci avevano detto essere molto compatto, invece cede spesso il posto a lunghissime strisce di sabbia per le quali non eravamo preparati perchè ce le aspettavamo solo nell'ultimo tratto e, quindi, veniamo rallentati. Chi di noi è sfornito di ghette spessissimo deve svuotare le scarpe dalla sabbia.
Nel frattempo, complice il fatto che i jeepponi che passano ogni tanto lasciano la sabbia in sospensione, soffro per non poter respirare bene.
Non riesco a tenere il passo e chiedo agli amici di lasciarmi dietro, per non danneggiare la loro gara.
Il buio ci avvolge fitto, non si percepisce con la lampada frontale quasi nulla di ciò che ci circonda e, stranamente, questo terreno “piattone” risulta sempre in salita (sensazione che poi si è rivelata comune a tutti).
Pian piano mi assale una sonnolenza strana fin quasi a una sensazione di svenimento che mi porto dietro tutta la notte e che, sovente, con una frequenza preoccupante, mi fa pensare al ritiro, ma quando ormai tutto sembra perso mi appare una “fatina” nei panni di una bella signora che mi chiede come va e che ha un bel passo di camminata; mi propone di agganciarmi a lei per vedere di superare la crisi.
Il suo passo, però, è celere e per starle dietro devo corricchiare, ma ce la faccio...
Nel frattempo le poche parole che scambiamo mi aiutano tantissimo fino al ristoro del 60° km; poiché lei, avendo incontrato il marito, si ferma a mangiare e riposare, ci salutiamo e ognuno prosegue per la sua strada. Io con con il mio amico e compagno, Salvo Piccione, che ho raggiunto.Mi affretto a cambiarmi per ripertire senza una sosta per il riposo.
Ma non riesco a seguirlo e mi faccio lasciare nuovamente.
Il sonno mi vince nuovamente e comincio a cantare per tenermi sveglio, ma con scarso risultato. Mi rendo conto che buona responsabilità è anche della lampada frontale che non fa una luce adeguata e quindi gli occhi fanno fatica a restare aperti, ma anche il fatto che sono abituato, nelle lunghe distanze a bere tanto the.
Qui invece lo trovo solo ogni 20 km.
Prego Dio di darmi la forza fino a che fa giorno, certo che le cose potranno migliorare ed cosi è.
Durante la notte non ci aiuta nemmeno il fatto di riconoscere a distanza i posti di ristoro, perchè la sensazione di andare sempre in salita poi corrisponde al vero e li vediamo solo appena arriviamo al crinale sovrastante.
Pian piano si fa giorno, e alle prime luci dell'alba questa terra brulla ci appare in tutta la sua interezza: ci accompagna anche qualche cinguettio, in cui identifico - da vecchio cacciatore - anche il canto delle calandre e questo mi distoglie dalla fatica.
Ma comincia a spuntare il sole e con esso il caldo che si fa sempre più opprimente, con esso i tre flagelli che mi accompagneranno nel tratto più duro, il finale di 15 km: le mosche a milioni, il vento sempre più forte che ci frusta la sabbia addosso (che ti entra dappertutto anche negli occhi nonostante la protezione di cappellino ed occhiali) e le dune.
E' un continuo saliscendi, coi piedi che affondano sempre più.
Non si riesce a respirare a bocca aperta perchè mastichi sabbia e rischi di fare un pasto iperproteico a base di mosche.
Nel frattempo il vento sempre più teso ha abbattuto molti segnali e molte bandiere di riferimento e, quindi, bisogna andarseli a cercare, facendo la massima attenzione.
Ma ecco che appare il fortino romano su un crinale e, con esso, la consapevolezza che il traguardo non dovrebbe essere molto lontano, arrivati lì dovrebbero mancare “solo” circa 5 km.
Ma quella che sembra una distanza breve, tale non è!
Per raggiungerlo il traguardo passa molto tempo, un tempo che sembra infinito.
Arrivati in cima ci dicono “Dai che è quasi finita” e ci indicano un punto all'orizzonte dove si vede una fila di alberi dietro i quali c'è l'oasi e l'arrivo, ma nel mezzo tantissime dune sormontate, da un velo che altro non è che la sabbia alzata dal vento che, nel frattempo, si è fatto impetuoso.
Un passo dietro l'altro ce la dobbiamo pur fare... e guardi gli altri a notevole distanza ognuno a cercare la strada più breve o meno pesante cercando di tenersi sempre sulla cresta delle dune... ma non è facile.
Finalmente gli alberi sono sempre più vicini e si cominciano a vedere gli uomini e le donne dell'organizzazione che sono lì ad aspettarti.
Ed ecco che finalmente arrivo alle piante, le attraverso e, svoltando, mi ritrovo il gonfiabile e tanti ad aspettarmi - anche concorrenti arrivati da un pezzo - ad applaudirmi e una simpaticissima ragazza che mi abbraccia (io, lercio di sudore!) e mi cinge il collo con la Mia medaglia, quella che mi sono conquistata, io che ho la sensazione di essere l'ultimo dei gladiatori sopravvissuti.
Posso solo aggiungere che quando ho finito ho pensato lì per lì: "Mai più".
Oggi devo dire che l'Africa con le sue mosche, il suo gran caldo, la sua sabbia, il suo sudiciume, il suo lezzo ha un suo fascino che ti prende e... non vedo l'ora di ritornarci.