Marco Aime nel suo nuovo libro "Rubare l'erba. Con i pastori lungo i sentieri della transumanza" (Ponte alle grazie, 2011) racconta - in una breve opera a metà tra il saggio antropologico e un amarcord, la vita dei pastori conosciuti nella sua infanzia, quando passava le vacanze dai nonni a Roaschia (Piemonte) che, a quel tempo, era il "posto dei pastori". In genere non è ortodosso il coinvolgimento emotivo in uno studio antropologico, ma in questo caso il risultato è stato affasciante, a metà tra una ricerca e un racconto poetico.
Quando il giovane Marco era bambino e non voleva mangiare, i nonni gli dicevano "Dovresti andare un po' con i pastori, vedi che impareresti!". Perchè la vita dei pastori era dura, sempre a viaggiare, dal paese scendevano nelle Langhe, nel Monferrato fino alla pianura dalle parti di Piacenza, per "rubare l'erba" di altri, sempre stranieri e sempre visti come invasori. E questi pastori sono uguali a tanti altri: i pastori abruzzesi in cammino verso la Puglia non erano molto diversi.
I pastori sono camminatori per forza.
Poichè le pecore non hanno erba tutto l'anno negli stessi posti, i pastori si devono spostare e lo sanno fare: "Uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre".
Il vecchio Toni, che racconta la sua vita ad Aime, racconta i pastori come persone di cui gli stanziali (i contadini, gli "uvernenc") sospettavano, dice "Noi pastori eravamo sempre dalla parte del torto, perchè rubavamo l'erba". Nelle sue parole c'è rassegnazione, la rassegnazione di chi sa di dover subire per forza qualche discriminazione, qualche insulto. I pastori si sentivano fratelli con gli zingari. Venivano chiamati i "gratta" dai contadini.
"Si cercava di passare nei posti non troppo affollati, di nascondersi un po', sempre in colpa, sempre dalla parte del torto, lungo strade poco battute dove, magari, incontravi altri come te. Altri con le pecore, altri che venivano dalla montagna, altri che andavano".
Dal libro di Aime esce la nostalgia per i pastori erranti, erano brava gente che sopravviveva alla povertà senza aspettarsi altro dalla vita.
E' un libro consigliato a tutti quelli che vogliono camminare sulle tracce dei pastori, nelle valli piemontesi, ma anche sui tratturi d'Abruzzo o nei supramonti sardi.
Luca Gianotti della Compagnia dei Cammini ha intervistato in esclusiva Marco Aime che ha parlato anche di turismo responsabile, di cui è esperto.
Dal risguardo di copertina
"Partivano. La gente di queste parti è sempre partita". I ricordi di Toni e Margherita, un anziano pastore e sua moglie, disegnano a tratti scarni ma decisi la loro storia, la storia della gente di Roaschia, nel Piemonte rurale di oltre mezzo secolo fa. Pastori, acciugai, venditori di capelli, uomini perennemente in viaggio: l'etnografo si chiede se abbia senso parlare di "radici", quando esistono "terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre", quando si è costretti a fuggire dal proprio villaggio per scampare alla povertà, per sopravvivere, "rubando l'erba" per le proprie pecore. Eppure continuiamo a pensare che il nomade, il randagio, il bastardo, siano l'eccezione, e che il sedentario sia la norma.
Marco Aime, che in quelle terre è nato e cresciuto, stempera il "dato" antropologico e oggettivo in un racconto vivido, "in prima persona", e proprio per questo vitale, nonostante la patina del ricordo e della nostalgia. La vita del pastore, segnata dall'universale diffidenza che i sedentari covano per i migranti di ogni tempo e luogo, diventa l'emblema - e la guida - di tutte le nostre peregrinazioni: "È quello il suo sapere, uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre".
Marco Aime, "Rubare l'erba", Ponte alle Grazie, 2011, 12 euro