Questa volta Giuliana Montagnin non era tanto propensa a scrivere un racconto sulla sua partecipazione alla Maratona di Crevalcore (che - assieme alla Mezza della Befana, alla sua prima edizione -si è svolta lo scorso 6 gennaio 2013).
Mi ha confidato di non sentirsi particolarmente ispirata, ma non perchè la Maratona non le fosse piaciuta.
Forse, perchè non si era attivata dentro di lei quell'alchimia mentale che porta il podista a volersi trasformare in scrittore per buttare giù e condividere alcuni vividi ricordi di questa o quella gara.
Io ho insisitto e, alla fine, Giuliana mi ha inoltrato il suo racconto, accompagnandolo con questa divertente nota: "Nonostante la torre di babele che regna nel mio ufficio son riuscita ad apportare le ultime modifiche/correzioni al mio racconto e mi son ricordata della frase che ci avevano insegnato a scuola MA CON GRAN PENA LE RECA GIU': forse la conosci anche tu Maurizio, era per ricordare i nomi delle Alpi: Marittime, Cozie Graie ecc. Nel caso del mio racconto, appena partorito, si può dire MA CON GRAN FATICA LO SI BUTTA GIU'".
E, malgrado Giuliana non fosse ispirata, è riuscita a scrivere un racconto interessante e gradevole che riesce anche a dare un insegnamento: a proprosito del fatto che, in presenza di una de-motivazione, chi si arrende è perduto, mentre chi resiste può andare incontro ad un improvviso - quanto imprevisto - rovesciamento dell'assetto mentale di disfatta e riuscire così a portare a termine la sua gara con grande - ed impagabile - soddisfazione finale.
E' questo un piccolo esempio sul modo in cui la resistenza mentale nelle gare di lunga lena si fondi su piccole cose, su "piccoli" eventi interiori, su concomitanze esterne che pssono diventare inattese "scialuppe di salvattaggio" e sulla voglia di non mollare mai, senza attendersi mete irraggiungibili.
E si riesce in questo tanto meglio, quanto più si riesce ad essere scanzonati ed autoironici.
E, dunque, penso proprio che Giuliana si meriti un bell'applauso sia perchè ha portato a termine la Maratona di Crevalcore (malgrado la demotivazione iniziale ed una crisi incipiente) sia per il modo in cui ha saputo racocntarcela (benchè a suo dire, anche nell'affrontare l'impresa del racconto, non si sentisse motivata).
(Giuliana Montagnin) Lo scorso 6 gennaio 2013 ho partecipato alla seconda edizione della Maratona di Crevalcore. Quest’anno c’era anche la possibilità di scegliere la mezza maratona con partenza differita. Optai per la maratona classica di 42,195 km, un po’ perché amo le distanze lunghe e un po’ perché volevo mettermi alla prova anche quest’anno, con l'ambizione di concludere il “trittico d’inverno” consistente in 3 maratone nell’arco di tre week end successivi: questa era la seconda prova, l’ultima sarebbe stata la Maratona della Pace sulle sponde del Lamone, un trail agevole di 47 km.
Non ero particolarmente stanca della gara di sette giorni prima [la Maratona di San Silvestro, ndr] e, naturalmente avevo riposato e recuperato, nessun allenamento e men che meno ripetute, solo qualche allungo sul tapis roulant della palestra che frequento quotidianamente: stretching e ginnastica a mio piacimento.
Non ho nessun allenatore e non so neppure io se faccio gli allenamenti giusti e i recuperi che dovrei: indubbiamente, lo stare completamente ferma e condurre una vita sedentaria non gioverebbe per nulla, allora meglio il movimento anche se blando in fase di recupero.
Partimmo da un campo di atletica al suono dell’inno nazionale, come piace a me, anche se lo preferisco in finale, perchè lì mi avrebbe dato più carica. Dopo il giro di pista ci immettemmo sulla strada e qui ebbi modo di notare che il percorso era cambiato rispetto all’anno precedente. A me non dispiaceva il tragitto dell’anno scorso, anzi lo preferivo e la stessa impressione l’ha avuta anche un’altra atleta di mia conoscenza.
Dopo alcuni chilometri, la stanchezza si fece sentire forse anche a causa della mia idea fissa: la mannaia del tempo massimo. La gara consisteva nell’effettuare due volte un percorso di 21 km: all'improvviso, mi ritrovai completamente demotivata, non so perché.
Fui superata da tantissime persone e temevo il fatto di ritrovarmi ultima su una strada pressoché deserta. Ad un certo punto, cominciarono a superarmi gli atleti della mezza maratona, i primi come bolidi; mi trovavo su un tratto di terreno sterrato e, temendo di essere travolta, dovevo ogni volta che sentivo uno scalpiccio di passi alle mie spalle, farmi da parte rallentare e quasi fermarmi; poi pian piano arrivavano gli altri, sempre meno veloci. Rimpiangevo la gara dell’anno prima, i chilometri di sterrato non c’erano ed avevo davanti a me solo lunghi rettilinei, senza incroci, quasi in una "perfetta" solitudine, dove far scorrere i miei pensieri liberamente senza preoccuparmi del percorso.
Verso la fine del primo giro rientrammo nel centro abitato di Crevalcore: ecco, questa è sempre la parte che odio di più in una gara, giri a destra, giri a sinistra, incroci a volte con la segnaletica precisa a volte mancante.
Presenza dello staff dell’organizzazione agli incroci, un po’ di dubbi … però, non sempre. Sbagliai strada, di pochissimo credo 50 o 100 metri, mi fecero girare attorno un’aiuola spartitraffico e mi indirizzarono verso un sottopassaggio. Proseguii ancora più demotivata e stanca, riflettevo se ritirarmi o meno alla fine del primo giro, perchè non avevo proprio nessuna voglia di perdermi completamente per le vie del centro di Crevalcore, anche se certamente avrei incontrato dei passanti che mi avrebbero indirizzato verso il palazzetto dello sport.
Con mia grande sorpresa alla fine del primo giro non ci facevano passare per il campo di atletica ma da una strada che lo sfiorava lungo il suo perimetro esterno, indirizzandoci sunito verso la periferia del paese per intraprendere il secondo giro. Un attimo di riflessione e proseguii borbottando tra me e me: Ma sì dai, proviamoci, ancora un giro, di tempo ce n’è. Cercai, nonostante il mio solito fastidio ai tendini, di correre seppur lentamente, volevo a tutti i costi aggregarmi a qualche gruppetto che mi precedeva. Riuscii ad agganciarmi ad alcuni atleti: non fu difficile, perchè camminavano a passo svelto ed io, correndo naturalmente senza affannarmi, riuscii ad acciuffarli.
Non mi misi a chiacchierare, non per essere schiva ma temevo di sprecare energie parlando: ero molto tesa e decisa a non mollare nessuno, tanta era la mia paura di perdermi in quei tortuosi ultimi km che mi si prospettavano alla fine.
Di nuovo i lunghi rettilinei che non finivano mai e senza biforcazioni mi fecero riprendere coraggio, vedevo le tabelle che indicavano i chilometri percorsi: ormai mancava poco, "solo" una decina di km e sarebbe finita anche questa seconda prova del trittico.
Iniziai nuovamente a correre piano alternando piccolissimi tratti al passo, in tal modo riuscii a raggiungere altri due atleti che erano più vicini al traguardo. Sembravano amici, più o meno della mia età, uno - un po’ più snello - marciava con passo molto spedito, mentre l’altro che sembrava dolorante e non in perfetta forma teneva duro, un po' camminava veloce (ma mai quanto il primo) e un po’ correva per raggiungerlo. Mi misi in testa di seguirli, costi quello che costi: non li avrei superati in nessun caso, era solo per far loro compagnia in quanto pareva che conoscessero bene la strada.
Buongiorno, ragazzi - dissi -, mi aggrego a voi solo perché ho paura di perdermi negli ultimi km che sono un po’tortuosi e mal segnalati, prometto che non vi sorpasso.
Ah! Se è così sono un po’ più tranquillo – mi rispose il primo atleta scherzando ed accettando ben volentieri la mia compagnia.
Non correvamo appaiati, perchè si era stabilito come un tacito accordo: il primo ci trainava, marciava con un passo decisamente svelto ed ogni tanto con la coda dell’occhio sbirciava per vedere se riuscivamo a stargli dietro. Dai che ce la facciamo ad arrivare tutti e tre assieme – ci incoraggiava.
Accidenti, hai un passo proprio assassino – disse l’altro, con un bellissimo accento emiliano
Ecco mi hai letto nel pensiero, volevo dire la stessa cosa – aggiunsi io.
Un po’ correvamo, un po’ marciavamo, tutto pur di non perderlo di vista.
Appresi che l’atleta più lento era caduto a terra, durante il compimento del primo giro, e che aveva perso parecchi minuti poiché era stato assistito dall’ambulanza, per fortuna nulla di grave.
Ci complimentammo con lui: tutto sommato era ancora lì a soffrire e a portare a termine un’altra maratona.
Raggiungemmo finalmente il campo di atletica, ancora 400 mt e la maratona sarebbe finita!
Fui di parola: come promesso, non agii con cattiveria, sprintando gli ultimi 100 metri. Non avrebbe avuto alcun senso: la finimmo tutti e tre assieme, alzando le braccia in segno di vittoria.
Una situazione alquanto bizzarra. Demoralizzata al massimo e pronta quasi al ritiro… Poi, ad un tratto, la volontà di aggregarmi ad altri atleti, pur di non perdermi in un dedalo di viuzze…
E’ per questo motivo che sono appassionata delle gare a tempo su circuiti. Lì, non puoi sbagliare, sei sempre in compagnia, finisci quando finiscono gli altri, vai inanellando giri su giri.
C’è un soprannome che mi sono messa da sola: La signora degli anelli.